IL TEATRO DI DIONISO
Il tragediografo non era un
semplice letterato, ma, a pieno titolo un uomo di teatro: egli raccoglieva in
sé molte figure (autore, attore scenografo compositore delle musiche,ecc.) e
scriveva per la scena, dovendo stare attento ai vari problemi della tecnica
drammatica. Per la ricostruzione del teatro di Dioniso un qualche aiuto ci
viene dalle fonti letterarie. Nel corso del V sec. le tragedie venivano
regolarmente rappresentate in questo teatro. Ma è probabile che nella fase dei
primordi ad ospitare le rappresentazioni fosse un’orchestra (spazio destinato alla danza) situata nell’agorà. Da
fonti tarde apprendiamo anche l’esistenza di tribune di legno nell’agorà e di
un loro crollo avvenuto durante la rappresentazione di un dramma di Pratina.
Proprio tale episodio avrebbe dato impulso alla creazione del teatro di
Dioniso. Si può supporre che in una
prima fase gli spettatori stessero in piedi o sedessero direttamente sul
declivio della collina, ma ben presto si dovette provvedere a rendere più
comoda la loro sistemazione attraverso la realizzazione di una serie di gradoni
in terra battuta su cui furono collocate delle panche di legno in funzione di
sedili. Dinanzi a loro si estendeva uno spazio piano ricavato in parte
sfruttando la parte meno accidentata del luogo. All’interno di questa ampia
terrazza era collocata l’orchestra: qui si muovevano il coro e gli attori.
Importanti lavori di ampliamento furono fatti nell’età periclea. L’orchestra fu
spostata poco più a nord, in modo da guadagnare spazio per l’azione degli
attori, che recitavano prevalentemente dinanzi alla skené; la cavea divenne
più ripida ma allo stesso tempo più sicura con l’erezione di robusti muri di
trattenimento ai lati e nella zona inferiore. I erano due corridoi d’ingresso
le parodoi o, meglio, gli esodoi. I lì entrava e usciva il coro.
Attraverso le esodoi entravano e uscivano
il più delle volte gli attori. A lungo è stata pressoché unanime
l’opinione che in epoca classica l’orchestra del teatro di Dioniso avesse una struttura
circolare. La creazione di una vera e propria cavea, cioè di una struttura a
conchiglia che consentiva di disporre gli spettatori in una forma avvolgente
intorno ad una orchestra circolare e di ottenere una migliore acustica
risalirebbe alla ristrutturazione dell’età licurghea. Sul fondo dell’orchestra
si trovava la skené. I resti della fondazione su cui poggiava a partire
dall’età di Nicia mostrano due buchi in cui evidentemente venivano infissi i
pali che sorreggevano la parte frontale della struttura scenica; altri pali
dovevano essere collocati in dieci fori, distanziati fra loro in maniera quasi
regolare, realizzati nel muro di sostegno retrostante. All’inizio la skené era
in realtà soltanto una tenda o una sorta di baracca che serviva da spogliatoio
per gli attori e da deposito per gli oggetti di scena. Ben presto la sua
facciata venne integrata nel gioco drammatico. In essa convenzionalmente si
identificò la facciata del palazzo o del tempio dinanzi a cui si svolgeva
l’azione della tragedia. L’erezione di due ali lignee sporgenti (V sec.), cioè
i paraskenia, contribuiva a definire
in maniera ancora più netta il profilo dell’edificio raffigurato. Varcando la
porta (le porte) della skené i protagonisti del dramma entravano in quello che
la finzione presentava appunto come il palazzo o il tempio, ecc., o ne uscivano ogni qualvolta la dinamica
dell’azione lo richiedesse. Questo uso della skené è attestato per la prima
volta nell’Orestea. In verità non
tutte le tragedie utilizzavano la skené come sfondo definito della
rappresentazione: certamente non tragedie ambientate in luoghi aperti e più o
meno lontani dallo spazio abitato, quali ad esempio il Prometeo o l’Edipo a Colono.
Aristotele nella Poetica attribuisce
a Sofocle l’introduzione della scenografia nel teatro; Vitruvio l’ascrive ad
Agatarco di samo, effettivamente attivo intorno alla metà del v sec. a.C. , ma
in connessione con l’attività teatrale di Eschilo. Propriamente il termine scenografia significa “pittura
della skené”. Di una scenografia in senso più proprio si potrà parlare a
partire dal teatro d’epoca ellenistica. Dove agivano gli attori? Una
testimonianza di Vitruvio riferisce che essi recitavano su di un logheion, una scena rialzata di alcuni
metri rispetto alla sottostante orchestra ove stazionava il coro. La creazione
di questa struttura è un prodotto dell’età ellenistica: essa interessò
certamente anche il teatro di Dioniso, ma non prima del III sec. a.C. Le
tragedie che noi leggiamo ci documentano invece una stretta interazione tra il
coro e gli attori. Le stesse commedie di Aristofane e ancor più il dramma
satiresco presuppongono la prossimità di attori e coro. E’ evidente dunque che
nel teatro del V sec. a.C. non poteva esservi una netta separazione tra
orchestra e logheion, o almeno non poteva esserci un proscenio così alto come
quello di cui parla Vitruvio. Polluce ci parla anche di un theologheion, cioè
di una piattaforma collocata al di sopra della skené, da dove gli dei avrebbero
pronunciato i loro discorsi. Di solito questa postazione per il dio che parla
dall’alto si immagina collocata direttamente sul tetto della skené.
Sotto Licurgo ci sono poi
delle innovazione dell’edificio teatrale: la costruzione di una cavea in
pietra; la skenè diviene una vera e propria costruzione in pietra provvista di
tre porte; anche i paraskenia acquistano dimensioni monumentali; lo spazio
riservato agli attori risulta definito da un’imponente cornice architettonica.
La separazione dal coro diventa in questo modo assoluta. Il declassamento del coro
a mero spettatore esterno degli eventi
che si verificano sul proscenio porta anche al superamento di quella unità di
luogo che il poeta del V sec. era invece generalmente vincolato a rispettare proprio in ragione della partecipazione
attiva all’azione drammatica di un coro costantemente presente nell’orchestra.
Tra le convenzioni del teatro graco rientra anche l’uso di macchine e strumenti
meccanici il cui impiego avveniva au
plein air senza che ciò venisse avvertito come un’interferenza
nell’illusione scenica. Il più celebre di questi strumenti è senza dubbio la macchina del volo: un congegno
fissato al suolo su un basamento al margine dell’orchestra, dotato di un lungo
braccio mobile azionato per mezzo di funi e carrucole, alle cui cui estremità
doveva essere agganciata una bardatura che serviva ad imbracare l’attore
destinato ad essere sollevato in alto. Della macchina Euripide si avvalse
spesso per l’apparizione improvvisa e miracolosa di una divinità che interviene
dall’alto a risolvere un conflitto drammatico altrimenti inestricabile. Una
soluzione certamente sorprendente e di facile presa spettacolare, come dimostra
il fatto che l’espressione deus ex
machina divenne proverbiale. Va tuttavia rilevato che non tutte le epifanie
divine che in Euripide vengono talora classificate come casi di deus ex machina
presuppongono con certezza l’uso della macchina. Ben altro impatto, invece,
doveva suscitare lo spettacolo di eroi che solcavano il cielo per compiere le
loro temerarie imprese. Un altro mezzo tecnico di cui si avvalsero i tragici fu
l’ekkyklema. Si trattava di una sorta
di piattaforma munita di ruote che
poteva essere manovrata in modo da poter uscire dalla porta centrale
dell’edificio scenico e rendere così visibile, all’occorrenza, ciò che era accaduto
o accadeva all’interno: quanto si mostrava sulla piattaforma apparteneva per convenzione allo spazio retroscenico. Il
suo uso era connesso in particolare a fatti di sangue verificatisi nel palazzo
e dunque di per sé preclusi allo sguardo del pubblico. Infatti la scena tragica
evita di presentare gli eventi cruenti nel loro compiersi. Le uccisioni, gli
accecamenti, i suicidi avvengono regolarmente fuori scena. Di questi fatti
naturalmente il pubblico poteva essere messo al corrente dal racconto di un
exanghelos, un qualsiasi personaggio proveniente dallo spazio retroscenico.
Infine, in alcune tragedie sulla scena comparivano dei carri, generalmente
introdotti come emblema di ricchezza e pompa regale.
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