GLI ATTORI
La tragedia nacque quando a
fronteggiare un coro fu introdotto per la prima volta un attore. L’invenzione
sarebbe stata, secondo la tradizione, opera di Tespi. Il termine stesso che in
greco designa l’attore, hypokrités, è stato interpretato in rapporto al ruolo
che esso avrebbe svolto nella fase dei primordi: quello di rispondere alle
domande del coro, di interpretare i fatti che il coro avrebbe rappresentato o
mimato attraverso il canto e la danza. L’introduzione del secondo e poi del
terzo attore avvenne nel corso del tempo: ne sarebbero stati artefici
rispettivamente Eschilo e Sofocle. Nel 458 (messinscena dell’Orestea) l’evoluzione appare già
compiuta. Negli anni successivi i tragici non utilizzarono mai più di tre
attori: a seconda dell’importanza delle parti ad essi assegnate si
distinguevano in protagonista, deuteragonista e il tritagonista. Una norma così severa aveva il suo pregio, cioè di
assicurare ai poeti che partecipavano all’agone condizioni di perfetta parità.
D’altro lato essa comportava che nella maggior parte delle tragedie ciascun
attore dovesse impersonare più ruoli, anche quelli femminili. Ovviamente nella
distribuzione delle parti si sarà tenuto conto delle caratteristiche dei
singoli attori: è ragionevole supporre che per gli attori impegnati in ruoli
esclusivamente femminili si facesse ricorso ad interpreti dotati di una voce
d’intonazione naturalmente elevata. Per esempio: il medesimo attore
interpretava nelle Baccanti i personaggi di Penteo e di Agave, con un
sinistro effetto di ironia tragica, se si pensa al finale del dramma e alla
possibilità che nella voce della madre che celebra il suo folle trionfo gli
spettatori riconoscessero la medesima voce del figlio da lei dilaniato. Merita
di essere segnalata la coerenza che governa la distribuzione dei ruoli nell’Edipo re: qui l’attore che dava la sua
voce ad Edipo non era altrimenti impegnato, e tutte le parti del vecchio erano
verosimilmente recitate dal deuteragonista. Nelle tragedie compaiono talora dei
bambini: specialmente Euripide li introduce nella scena con evidenti finalità
patetiche, utilizzandoli soprattutto come presenze mute. Vi sono casi,
tuttavia, in cui sono loro assegnate brevi battute in metro lirico.
L’impossibilità di utilizzare più dui tre attori imponeva all’autore-regista un
attento movimento delle scene, con un preciso calcolo della cadenza delle
entrate e delle uscite dei personaggi. Ma non sempre i problemi che egli
incontrava consentivano facili soluzioni. Esemplare il caso dell’Elettra euripidea, ove Oreste rivolge
più volte la parola a Pilade senza che questi gli risponda. Qualche
precisazione meritano i cosiddetti “personaggi muti”. Può accadere che un
personaggio che nel resto del dramma partecipa attivamente al dialogo scenico
sia costretto, per un determinato segmento della tragedia, a restare in
silenzio per consentire all’attore che l’ha sin qui rappresentato di rendersi
disponibile per un altro ruolo: in tali circostanze la sua parte era
provvisoriamente ricoperta da un figurante. “Personaggi muti” in senso più
proprio vanno considerati quei personaggi che, pur impegnati dal poeta nelle
rappresentazioni, rimangono costantemente silenti per tutto il tempo della loro
permanenza sulla scena (Bia nel Prometeo, Pilade nelle Coefore). Esse non sono
menzionate nelle notae personarum che
nei codici medievali accompagnano il testo delle tragedie; ma che fossero
presenti ed anzi avessero una funzione di rilievo ci è assicurato da indizi
interni al testo stesso (il tableau iniziale dell’Edipo re, con la massa di Tebani che si accalca dinnanzi alla
reggia e agli altari perché il sovrano intervenga a liberare la città dalla
peste che la tormenta. In proposito della distribuzione dei ruoli, i testi a
noi pervenuti non forniscono alcuna indicazione esplicita. E’ merito degli
studiosi moderni aver tentato di ricostruire il quadro delle parti di ciascun
attore rilevando le situazioni di contemporanea presenza in scena di due o più
personaggi attivi. Nelle Baccanti un
attore impersonava Dioniso e Tiresia, un altro Penteo e Agave, un altro ancora
Cadmo, il servo e il primo messaggero, mentre resta dubbia l’attribuzione del
ruolo del secondo messaggero. Abbiamo numerose testimonianze sulla cura con cui
gli attori cercavano di irrobustire o di affinare le proprie qualità vocali:
diete, gorgheggi, esercizi di vario tipo. Non tutti si dimostravano all’altezza
dell’arduo impegno: Sofocle ad esempio, dopo aver egli stesso calcato le scene,
dovette rinunciarvi per l’inadeguatezza della sua voce. Che lo stile della
recitazione fosse particolarmente elevato e solenne si desume dal linguaggio
stesso della tragedia. Una tarda testimonianza di Apuleio differenzia in modo
netto la recitazione degli attori comici e degli attori tragici: di tipo
prevalentemente colloquiale l’una, fortemente sostenuta e incline alla
declamazione potente l’altra. La complessità e l’impegno della recitazione,
nonché l’incidenza che certamente essa aveva sull’esito finale dell’agone,
spiegano il rapido emergere ed affermarsi, già verso la metà del V secolo, di
un vero e proprio ceto di attori professionisti. I primi poeti tragici erano
stati essi stessi interpreti dei loro drammi: ma ben presto questa consuetudine
declina. Nel 449 a.C. viene istituito uno speciale premio per il miglior attore
protagonista. Aumenta la popolarità degli attori, al punto tale che sin dal IV
secolo, quando teatri in pietra sorgevano in diverse località della Grecia e
gli attori diventavano itineranti, i più famosi assurgono al rango di vere e
proprie vedettes internazionali: le città
non solo li scritturano, ma li gratificano con pubblici decreti di
onorificenza; ad alcuni di essi vengono addirittura affidati delicati incarichi
di rappresentanza diplomatica. Nell’età ellenistica il repertorio delle
compagnie teatrali finirà con il prevedere la possibilità non più di una
rappresentazione integrale delle tragedie, ma di una selezione dei pezzi
migliori di uno o più autori. In simili esibizioni le strutture tradizionali
della tragedia classica appaiono ormai del tutto dissolte. Il proliferare degli
spettacoli drammatici e musicali in tutto il mondo ellenizzato porta infatti
alla nascita già nei primi decenni del III secolo di associazioni che
raggruppano i cosiddetti “artisti di Dioniso”: ne fanno parte tutti coloro che
a vario titolo contribuiscono o partecipano alle perfomances nei teatri. Queste
vere e proprie gilde, che godono di un riconoscimento istituzionale e si
adoperano perché ai loro membri vengano assicurati numerosi privilegi, hanno
un’intensa vita associativa e una precisa struttura interna. Agli inizi
dell’età imperiale le varie associazioni dell’ecumene greco-romana vengono
federate in un solo organismo, ma ciascuna di esse continua la propria
esistenza a livello locale in una condizione di relativa autonomia. Le ultime iscrizioni
che ne attestano la presenza, ma che al tempo stesso lasciano intravedere una
fusione con le gilde degli atleti, risalgono al III secolo d.C. I Greci
adottarono il termine con cui indicavano il viso – prosopon – per designare
tanto la maschera in sé quanto il personaggio che la portava: la medesima
identificazione si perpetua nel vocabolo latino “persona”. La maschera aveva
probabilmente le sue radici nel culto. Il suo uso ci è particolarmente
attestato nel komos di Dioniso, del
dio che invasa i suoi seguaci e li induce all’estasi, cioè allo straniamento da
se stessi. L’uso della maschera da parte degli attori (e dei coreuti, almeno
fin tanto che il coro sopravvisse) accompagna le rappresentazioni tragiche sino
alla più tarda età. L’impiego delle maschere permetteva a ciascun attore di
impersonare più ruoli, ivi compresi quelli femminili: un espediente al quale
era inevitabile fare ricorso in un teatro che utilizzava solo interpreti di
sesso maschile e nel quale vigeva una norma che limitava a tre il numero
massimo di attori a disposizione di ciascun tragediografo. Studi molto accurati
hanno invece dimostrato come sia del tutto infondato l’argomento secondo cui la
fortuna della maschera sarebbe da porsi in connessione con un presunto “effetto
megafono”. Al contrario, uno dei requisiti fondamentali dell’attore greco era
la potenza vocale; e un’attenzione particolare doveva essere posta in sede di
progettazione all’acustica del teatro. Le maschere erano fatte di lino su cui
veniva passato dello stucco; una volta divenute rigide, si procedeva a
dipingerle: quelle femminili di bianco, quelle maschili con un colore un po’
più scuro. Opportunamente fissate con delle stringhe, coprivano l’intero volto;
ad esse era assicurata una parrucca, probabilmente di lana. La deperibilità del
materiale spiega perché non se ne sia conservata nessuna. L’espressione della
maschera tragica è generalmente composta. In progresso di tempo, verso la fine
del V sec., comincia a manifestarsi la propensione a rendere lo stato di tensione
o di sofferenza dei personaggi. Ma nelle linee generali il quadro si mantiene
inalterato almeno fino all’inizio dell’età ellenistica. La tradizione
attribuisce ad Eschilo l’introduzione di maschere colorate e terrificanti: esse
saranno servite per quegli effetti spettacolari di cui il poeta fu maestro. In
casi del tutto eccezionali poteva rendersi persino necessario che un
determinato personaggio cambiasse maschera nel corso della rappresentazione.
Basti qui citare l’esempio assai celebre del finale dell’Edipo re, allorché il protagonista rientra in scena con gli occhi
devastati e sanguinanti, provocando nel coro una reazione di orrore e sgomento.
A partire dall’età ellenistica assistiamo ad una radicale trasformazione della
fisionomia della maschera tragica: le aperture per gli occhi sono diventate
grandi e profondamente incavate, la bocca spalancata, la fronte alta e
sormontata da una massa di capelli che si ergono a forma di piramide per
ricadere fluenti da ambo i lati. Unitamente ai coturni a suola rialzata, che
rendono più statuaria la figura dell’attore, questo tipo di maschera è
funzionale alle esigenze delle mutate strutture teatrali. Il mito viene ormai
sentito come un mero repertorio di favole e racconti straordinari. Sul costume
degli attori e dei coreuti della tragedia abbiamo informazioni assai scarse.
Quasi nulla si ricava dal testo dei drammi pervenuti. Un elenco di vesti di
scena si legge in Polluce, ma non siamo in grado di stabilire a quale epoca
vada riferito. Un cenno a parte va riservato agli eroi “mendicanti” di
Euripide. Essi sono bersaglio della feroce satira di Aristofane, che ce ne
offre un vero e proprio catalogo e giunge a coniare per lo stesso Euripide
l’epiteto “rammendatore di stracci”. Il testo del poeta comico fa esplicito
riferimento a tragedie andate perdute, sì che non possiamo ben valutare qual
fondamento abbiano le sue critiche. Quanto alle calzature degli attori e dei
coreuti (che in casi speciali, potevano anche calcare la scena a piedi nudi),
il contributo dell’archeologia si è rivelato addirittura decisivo. Per lungo
tempo la critica moderna ha prestato fede alla notizia secondo cui già Eschilo
avrebbe aumentato considerevolmente la statura e reso più imponente la figura
degli interpreti delle sue tragedie dotandoli di calzari provvisti di uno
spesso rialzo: i coturni. In realtà nelle figurazioni vascolari questo modello
di scarpa non è attestato prima della tarda età ellenistica. Le testimonianze
della ceramografia d’età classica ci mostrano invece attori e coreuti che
calzano stivaletti dalla suola molto ridotta e di foggia piuttosto larga, alti
sino al polpaccio, di pelle morbida, aderenti alla gamba o forniti di lacci,
talora con la punta rivolta verso l’alto e in qualche caso ornati con ricami.
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