TRAGEDIA E POLIS
Agli agoni scenici
assistevano tutti i cittadini, riuniti in uno stesso spazio, tutti i cittadini
che lo volessero ma anche i meteci e le donne: queste ultime avranno costituito
comunque un’esigua minoranza. La festa aveva un carattere popolare, ma era al
tempo stesso disciplinata da una rigida organizzazione, con un cerimoniale che
esaltava le differenze di ordine giuridico e sociale tra le diverse fasce del
pubblico presente in teatro. Seggi d’onore in pietra, in una fila avanzata rispetto
alla cavea, erano riservati alle autorità religiose e ai più alti magistrati in
carica, nonché agli ambasciatori di città straniere; al centro della fila era
il posto del sacerdote di Dioniso. Una sistemazione di riguardo spettava anche
agli strateghi, ai tesorieri, ecc. Questo privilegio era esteso anche agli
stranieri e ai meteci che si fossero distinti per particolari benemerenze nei
confronti della polis. Tutti gli altri occupavano le gradinate collocate più in
alto. Per accedere al teatro gli spettatori dovevano acquistare un biglietto d’ingresso: si sarà
probabilmente trattato di contrassegni di piombo, che una volta ritirati
all’entrata nel teatro, potevano poi essere facilmente fusi ed essere così
riutilizzati per gli spettacoli degli anni successivi. Il ricavato dell’incasso
serviva alla copertura delle spese di manutenzione delle strutture del teatro.
Le fonti ci parlano dell’istituzione di un theorikon:
un sussidio di due oboli volto ad assicurare a tutti i cittadini ateniesi la
possibilità di assistere ad agoni scenici. Il livello medio di istruzione degli
spettatori ateniesi del V secolo non doveva essere molto elevato. Solo una parte di essi avrà
saputo leggere e far di conto, e per lo più solo in maniera elementare: del
resto la circolazione di testi scritti è ancora limitata. Pur se privi di
cultura, coloro che assistevano alle rappresentazioni non dovevano mancare di
intuito critico e di senso dello spettacolo. I verdetti delle giurie
sembrerebbero confermarlo. Possiamo esser certi che ad ogni ciclo di spettacoli
facessero seguito accese discussioni sul modo in cui il mito era stato
trattato, sulla messa in scena, sulla recitazione degli attori, sui canti del
coro, ecc. Le commedie di Aristofane ci documentano anche che i poeti comici
che rappresentavano le loro opere nel teatro di Dioniso erano perfettamente
consapevoli di avere di fronte a sé un pubblico composito. La cornice stessa
degli spettacoli tragici era volta ad esaltare la potenza stessa di Atene e a
riaffermare il primato della comunità sui singoli individui. Da tempo ormai,
nell’Atene del V secolo, l’antica ideologia aristocratica del kleos individuale ha ceduto il passo
alla celebrazione del buon polites e
dell’oplita valoroso che, stretto nella falange, combatte non per se stesso ma
per la comunità di cui fa parte. Che la tragedia avesse una funzione politica
fu ampiamente riconosciuto dagli antichi. Il Dioniso delle Rane aristofanee vuole richiamare in vita uno dei grandi tragici
perché ammaestri il suo popolo; e nel secolo successivo Platone polemizzerà con
i tragediografi perché le loro opere corrompono i giovani e configgono con il
programma paideutico del suo stato ideale. La critica moderna ha da tempo
accreditato una visione della tragedia come strumento di promozione e diffusione
del consenso intorno ai valori sui quali si fondava la comunità cittadina.
L’ammonimento trasmesso allo spettatore – con l’implicito invito al senso della
misura e al rispetto della legalità – è inequivocabilmente chiaro e proprio per
questo il più delle volte non ha neppure bisogno di essere enfatizzato da
elaborati commenti verbali. Si veda ad esempio la breve considerazione gnomica
condensata nella battuta con cui il coro, a conclusione dell’Antigone, commenta la catastrofe di
Creonte:
Di gran lunga la saggezza è il
fondamento primo della felicità. Non bisogna essere empi verso gli dei. I
discorsi superbi dei tracotanti, ripagati da colpi tremendi, insegnano ad
essere saggi nella vecchiaia.
Un motivo ancora più
chiaramente connesso con l’ideologia della polis è quello del sacrificio
volontario di un eroe o eroina che accetta di immolarsi per il bene della
patria o per una causa di interesse collettivo. Non è casuale che il motivo non
sia ancora testimoniato in Eschilo: all’epoca delle guerre persiane e
dell’ancor giovane democrazia ateniese il cittadino che serve la polis come
oplita o marinaio mostra per la comunità cui appartiene una dedizione assoluta.
Quanto a Sofocle, nel suo teatro troviamo esempi di figure – Antigone ed Elettra – che sono sì
disposte a rinunciare alla vita, ma per altre pur nobili ragioni. E’ in
Euripide che il motivo acquista grande rilievo. La rinuncia alla cita non
consegue più all’adempimento di un obbligo familiare o religioso, ma ha luogo
nell’interesse superiore dello stato o della comunità. La tragedia svolgeva
anche un’altra funzione non meno importante: mettendo in evidenza la precarietà
della condizione umana, muoveva lo spettatore a riconoscere i propri limiti, lo
preparava ai rovesci della fortuna (La miseranda morte di Agamennone, l’atroce destino di Edipo).
A questo tema dell’imponderabilità del futuro soprattutto Sofocle ha dedicato
versi di notevole suggestione (nel terzo stasimo dell’Edipo re la riflessione
si sviluppa con straordinaria intensità d’accenti). Ovviamente non bisogna
credere che nel rappresentare di Edipo o di altri eroi Sofocle si prefiggesse
primariamente l’intento di educare i suoi spettatori alla conoscenza di se
stessi. Se la tragedia indubbiamente contribuì a diffondere e a rafforzare i principi
cardine dell’ideologia della polis, non si deve tuttavia per questo ipotizzare
un diretto ed esplicito condizionamento dei poeti da parte del potere politico.
Al di là di una generale e certamente non forzata adesione ad alcuni valori di
fondo, i tragediografi non rinunciarono a mostrare le contraddizioni, le
insufficienze, le difficoltà di concretizzazione di quegli stessi ideali che
costituivano il credo dell’ideologia corrente. Il tragediografo esplora i
problemi, approfondisce le incongruenze, dà rilievo ai conflitti. Più delle
certezze, lo interessano i dubbi, le inquietudini, le zone d’ombra. Il suo
obiettivo è di offrire spunti di riflessione, scuotere le coscienze. Nulla di
più errato, dunque, che pensare alle tragedie come a veicoli di una ben
dissimulata catechesi. Aristotele nella Poetica
presenta pietà e paura come le emozioni tragiche per eccellenza: quelle
emozioni cioè che la tragedia, in forza della mediazione della mimesi, deve
evocare se vuole davvero raggiungere il suo scopo, e alle quali è anzi connesso
lo stesso piacere proprio della tragedia. Perché questo si realizzi occorre che
lo spettatore sia indotto ad immedesimarsi nei protagonisti della vicenda
rappresentata: solo da una siffatta identificazione potranno derivare pietà e
paura dinanzi ai casi dell’eroe. Se al poeta compete creare l’illusione, lo
spettatore ha il dovere di assecondarla e di lasciarsene ammaliare, di aderirvi
emozionalmente. Lo stesso Gorgia aveva così descritto l’effetto della poesia.
Per Aristotele c’è in tutti gli animi la predisposizione alle emozioni, solo
che in taluni è più accentuata, in altri meno.
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