IL MITO E L’ “EROE TRAGICO”
Per i soggetti delle loro
tragedie i poeti attinsero al mito. Soggetti prediletti appaiono la guerra di
Troia e la saga dei Tantalidi, quella degli Argonauti, di Perseo e dei
Labdacidi. Temi propri della saga locale attica sono già presenti in Eschilo,
ma è soprattutto con Sofocle ed Euripide che acquistano uno spazio rilevante.
In particolare si afferma la figura di Teseo (patriottismo ateniese). La saga
divina rimase invece agli argini nella scelta dei drammaturghi. Un dato che può
sorprendere l’osservatore moderno è la ripetitività dei temi, ma ogni
tragediografo ripercorreva un tema in modo diverso. Variazioni di questo tipo
non sfuggivano al pubblico più avveduto. Nel momento stesso in cui un poeta
riprendeva un tema tipico già svolto, egli poteva contare sull’orizzonte
d’attesa creato dalla versione antecedente. In Euripide vi sono addirittura dei
passi in cui l’esperienza teatrale precedente è richiamata in modo così
trasparente che si potrebbe a ragione parlare di spunti di metateatro. Pur
nella varietà dei soggetti proposti, alcuni motivi appaiono ricorrenti. Il
motivo della supplica è la matrice stessa di drammi come le Supplici di Eschilo, gli Eraclidi e le Supplici di Euripide, l’Edipo
a colono di Sofocle. Si tratta di un pattern
di evidente efficacia drammatica: una persona o un gruppo di persone chiede
protezione o salvezza all’eroe perché insidiata/o da una controparte ostile.
Ciò rende possibile una serie di confronti dialettici che il poeta può in vario
modo sfruttare per illustrare le rispettive posizioni e delineare il carattere
dei protagonisti. Il secondo motivo è quello della salvazione, che può
provenire da un aiuto esterno espressamente richiesto. In altri casi essa deve
essere realizzata dagli stessi personaggi che versano in una grave situazione
di pericolo. Un altro importante motivo è quello del riconoscimento. Due
personaggi, legati da uno stretto vincolo di parentela e separati da varie
vicissitudini, si rincontrano senza riconoscersi. L’agnizione avviene non senza
difficoltà ed equivoci e passa talora attraverso spettacolari colpi di scena.
L’esempio più noto è Edipo, ove l’eroe giunge infine a riconoscere in se stesso
l’assassino di Laio contro cui all’inizio della tragedia aveva scagliato la sua
maledizione. Notevole è il numero delle tragedie in cui a fungere da motivo
guida è il nesso colpa-espiazione. In esso trova un’esemplare oggettivazione la
teoria eschilea (Baccanti > Penteo
indotto ad una morte atroce da Dioniso quale ritorsione per aver osteggiato il
suo culto). In più di una tragedia è un oracolo o l’ordine di un dio a dare
l’avvio o comunque un impulso importante all’azione tragica: così è per la
vendetta di Oreste, per la ricerca dell’uccisore di Laio nell’Edipo re. La
sagomatura che uno scrittore dava alla sua materia era in funzione di una
personale lettura della fabula trasmessagli dalla tradizione. Quest’ultima
forniva la traccia, segnava la direzione degli eventi, ma era al poeta che
incombeva il compito di fornire una chiave di spiegazione degli eventi,
interpretarli. Di qui il rilievo che acquista il dialogo tra i personaggi: in
esso vengono esposti e dibattuti motivi
dell’azione, esplorate le passioni, approfondito il significato delle vicende
rappresentate. Quanto fluttuante fosse la tradizione lo si rileva anche dalle
incoerenze riscontrabili all’interno della produzione degli stessi tragici. Chi
ponga a confronto l’Odisseo dell’Aiace
con quello del Filottete non potrà
non meravigliarsi della loro profonda diversità: il medesimo personaggio è
caratterizzato con tratti di umanità e generosità nella tragedia più antica, di
perfidia e spietatezza in quella più recente. In Euripide il fenomeno assume
proporzioni addirittura sconcertanti.
Nella Poetica Aristotele
afferma con grande insistenza ed enfasi che al centro della tragedia c’è
un’azione:
Da ciò si è tratto talora
motivo per sostenere la tesi che nella tragedia greca i caratteri dei
personaggi sono assolutamente subordinati alle esigenze dell’intreccio. Compito
primario del poeta è quello di rielaborare la fabula mitica in ossequio ai
criteri di necessi
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tà e della verosimiglianza, sì da fornirle una
configurazione che ne faccia risaltare gli elementi dell’universalità. Lo
stesso Aristotele non disconosce l’importanza dei caratteri: le azioni non sono
processi astratti, ma vengono compiute da uomini che agiscono, ed anzi è
proprio l’ethos di chi agisce a determinarne e qualificarne l’azione. Azione e
caratteri sono dunque strettamente correlati. Per il filosofo il carattere è la
disposizione alla virtù o al vizio quale si rivela nella proairesis, ossia nell’intenzione etica che il soggetto
consapevolmente esprime quando si trovi ad affrontare scelte significative.
L’interesse dei tragediografi era sollecitato soprattutto dalle azioni degli
eroi, ma nulla autorizza ad affermare che essi abbiano sottovalutato
l’importanza di un criterio-cardine come quello della verosimiglianza
psicologica. Anzi, proprio perché gli eroi tragici erano assunti a paradigmi di
un’umanità universale, l’uomo medio, lo spettatore, aveva bisogno di
identificarsi con essi senza incertezze o punti oscuri. Aristotele poi afferma
l’obbligo che tra il carattere e l’azione del medesimo personaggio vi sia
assoluta coerenza. I grandi tragediografi ateniesi, sia pure in diversa misura,
si sforzarono di rappresentare gli eroi dei loro drammi in modo unitario e
coerente. I protagonisti delle tragedie sofoclee o alcune eroine di Euripide,
ci danno l’impressione di profili nettamente individualizzati. Ciò dipende
appunto dall’abilità con cui il singolo poeta ha saputo costruire le sue
figure, sfruttando tutti i mezzi a sua disposizione. Sofocle più di tutti ha
contribuito a fissare l’immagine dell’ “eroe tragico” nel senso in cui
l’intendiamo noi moderni. Concentrando l’attenzione sul protagonista della
vicenda drammatica e conferendogli un rilievo prima in attestato, egli ha
creato personaggi come Aiace, Antigone, Elettra, la cui tempra e il cui codice
di comportamento richiamano il modello degli eroi dell’epos: pronte ad accettare
e a sfidare se necessario anche la morte. Delle loro scelte, destinate a porli
in conflitto con coloro che li circondano, essi avvertono tutto il peso, e
tuttavia ne assumono pienamente la responsabilità: anche quando sanno che
l’esito estremo sarà la catastrofe. La tragedia rifugge dal presentarci
situazioni dalle quali emerga con assoluta nettezza l’unilateralità della colpa
a l’esclusiva responsabilità del singolo. Non di rado il gesto terribile
intorno a cui ruotano le tragedie imperniate su storie di tradimento e di
vendetta è solo l’anello di una catena di eventi innescati da altri, sì che
colui che ne è l’autore può appellarsi a motivazioni oggettive o addurre
attenuanti che rendono articolato e complesso il giudizio; moltissimo conta il
modo in cui è sviluppato il tema dai singoli autori. Risalta che il poeta non
si limita a trasferire meccanicamente il singolo episodio dal mito alla
tragedia, ma ne coglie e ne focalizza gli aspetti più problematici, scavando in
profondità nelle motivazioni dei personaggi. Non è un caso che le riposte
possano essere diverse e diverso anche il trattamento dei medesimi personaggi
nelle medesime situazioni. In alcune situazioni sui protagonisti delle tragedie
grava il peso di antiche maledizioni familiari, o la loro sorte appare già
stabilita da oracoli che la vicenda tragica rivela infallibilmente veritieri:
valga per tutti l’esempio di Edipo. Sulla base di casi come questi si è giunti
a sostenere che l’eroe tragico non è veramente libero e che a reggere dall’alto
i fili della sua esistenza sono gli dei. L’eroe tragico è spesso costretto a
scegliere in situazioni di forte condizionamento, perché così vuole il dio; ma
il più delle volte, pur agendo entro limiti che appaiono assai ristretti, egli
non appare totalmente privato della sua libertà di scelta. In Eschilo il motivo
della ereditarietà della colpa viene riassorbito all’interno di una teodicea in
cui il compiersi del disegno degli dei travalica le singole generazioni: al
termine di un ciclo più o meno complesso, l’ordine viene ricostruito. L’uomo
non può dubitare della giustizia divina, e le sofferenze che patisce devono
servirgli da ammaestramento. La prospettiva religiosa di Sofocle è assai meno
chiara e lineare. La sventura e il dolore si abbattono sull’uomo senza che egli
riesca a leggere nell’oscura volontà degli dei. Al fondo c’è l’accettazione
della religiosità tradizionale, incapace di spiegarsi l’esistenza del male e
dell’ingiustizia del mondo. Gli dei restano comunque oggetto di venerazione e
ad essi si continua ad obbedire; ma l’eroe sofocleo sperimenta che ciò non
basta ad evitargli la sofferenza. Con Euripide la fede negli dei si incrina. Il
suo atteggiamento verso il mondo divino appare improntato ad un razionalismo
che mette a nudo le incongruenze delle credenze tradizionali. Aristotele
introduce l’hamartia come causa della catastrofe del protagonista della sua
tragedia ideale. Essa è stata variamente considerata come un errore puramente
intellettuale o come una vera e propria colpa morale. Nella hamartia occorrerà
dunque ravvisare un errore di valutazione: per questo egli porta su di sé la
responsabilità dell’errore commesso, anche se ha agito senza premeditazione d
senza cattive intenzioni. La vita dell’uomo, anche di chi non abbia un’indole
malvagia, corre su di un filo sottilissimo; le vicende degli eroi della scena
ci mostrano come a volte anche un semplice errore di giudizio possa avere
conseguenze fatali. Aristotele parla dell’hamartia unicamente in riferimento
alla “tragedia ideale” e con il pensiero rivolto ad una tragedia-modello, che è
l’Edipo re. E’ a tragedie come questa che si applica dunque l’enunciato del
filosofo.
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